Siamo in una bolla?

“Il tempo rivela ciò che l’euforia nasconde.” – Warren Buffett

Da mesi, la domanda aleggia nei mercati come un’eco familiare: stiamo davvero vivendo una nuova bolla speculativa come quella del 2000? Il paragone con la stagione della “dot-com mania” torna ciclicamente, alimentato dal rally dei titoli tecnologici e dall’entusiasmo per l’intelligenza artificiale.

 

Allora come oggi, la Borsa americana era ai massimi storici, sospinta da un’innovazione che prometteva di cambiare il mondo. Ma la storia, come spesso accade, non si ripete mai allo stesso modo: talvolta fa solo rima. Alla fine degli anni Novanta, l’euforia a Wall Street sembrava non avere limiti. Bastava aggiungere un “.com” al nome di un’azienda per vederne volare il titolo. Il Nasdaq quintuplicò il proprio valore in pochi anni e solo nel 1999 guadagnò l’85%. Poi, nel marzo del 2000, la realtà bussò alla porta: nel giro di due anni l’indice perse circa il 78% del suo valore, e migliaia di società scomparvero lasciando dietro di sé capitali bruciati e sogni infranti. Non tutte, però, finirono allo stesso modo. Microsoft, Intel, Amazon e poche altre sopravvissero al crollo, confermando un principio che resta valido ancora oggi: le bolle non cancellano la tecnologia sottostante, ma separano chi ha fondamenta solide da chi vive solo di entusiasmo.

 

Molti paragoni con quella stagione partono dai multipli di valutazione. Nel 2000, il rapporto prezzo/utili del Nasdaq superava quota 70, e in molti casi si trattava di società che non avevano né utili né flussi di cassa positivi. Oggi, nel 2025, i multipli sono alti ma non estremi. L’S&P 500 quota poco sopra le 23 volte gli utili attesi, mentre il Nasdaq si aggira intorno a 27–28. Numeri elevati, ma lontani dai livelli di delirio del 2000. Anche il CAPE di Shiller, un indicatore che misura il prezzo rispetto agli utili medi corretti per l’inflazione, oggi è vicino a 39–40, sotto il picco di 44 raggiunto venticinque anni fa. In sostanza, i mercati appaiono cari ma non slegati dai fondamentali.

 

La differenza, però, è sostanziale, allora si pagavano sogni, oggi si pagano aziende che producono profitti reali, generano cassa e distribuiscono dividendi.

 

Un altro aspetto che oggi preoccupa è la concentrazione dei rendimenti su pochi titoli. I cosiddetti “Magnificent 7” – Apple, Microsoft, Alphabet, Amazon, Meta, Nvidia e Tesla – rappresentano da soli una fetta enorme dell’S&P 500. Negli ultimi due anni, gran parte dei guadagni dell’indice è arrivata da questi nomi, mentre molte small e mid cap sono rimaste indietro. Una leadership così concentrata aumenta la vulnerabilità del mercato, perché basta una delusione sugli utili di uno di questi colossi per trascinare l’intero indice. Tuttavia, si tratta di giganti che generano flussi di cassa imponenti e utili ricorrenti, non di società senza modello di business come quelle della “new economy”. Allora saliva tutto, oggi no. Il rialzo è più selettivo e si fonda su basi economiche più solide.

 

Il contesto macroeconomico è un’altra differenza cruciale. A fine anni Novanta, l’economia americana cresceva a ritmi del 4-5% l’anno, l’inflazione era stabile e il bilancio federale in surplus. Le condizioni sembravano perfette per l’ottimismo e, complice una forte espansione del credito, il capitale affluiva senza freni verso qualunque progetto che avesse il sapore di internet. Oggi, dopo lo shock inflazionistico del 2022, i tassi d’interesse sono tornati positivi e il costo del denaro è tutt’altro che trascurabile. Il debito pubblico è elevato, le finestre di IPO sono più selettive e, anzi, prevale spesso il riacquisto di azioni proprie (buyback), che riduce la quantità di titoli in circolazione.

 

Venticinque anni fa si finanziavano sogni, oggi si finanziano utili. Il capitale è più caro e più selettivo, e questo rappresenta un freno naturale agli eccessi. Ma forse la differenza più importante riguarda la qualità degli utili. Nel 2000, molte società si presentavano agli investitori con metriche creative – “clic”, “utenti attivi”, “visite” – che mascheravano l’assenza di profitti. Oggi il quadro è completamente diverso. Le grandi aziende tecnologiche basano i propri ricavi su abbonamenti, servizi cloud, licenze e contratti di lungo periodo. Sono entrate ricorrenti, con costi di acquisizione già sostenuti in passato, che garantiscono flussi di cassa prevedibili.

 

Il free cash flow è positivo e spesso utilizzato per finanziare la crescita o restituire capitale agli azionisti. I margini sono ai massimi storici e la qualità dei bilanci è molto più presidiata grazie a riforme e controlli nati proprio dalle crisi del passato. Anche questo è un segnale: si può discutere sulle valutazioni, ma non sulla sostanza economica delle aziende leader.

 

C’è poi un fattore che distingue profondamente l’attuale fase, la tecnologia che muove i mercati. Allora la rivoluzione si chiamava internet e riguardava essenzialmente la comunicazione. Oggi si chiama intelligenza artificiale e ha potenziali applicazioni in ogni settore dell’economia. La narrativa è forte, certo, ma dietro ci sono infrastrutture concrete, semiconduttori, data center, cloud, automazione industriale. L’attenzione va posta non tanto sull’entusiasmo quanto sulla capacità delle imprese di tradurre gli investimenti in ricavi reali. Se la spesa in capitale cresce più in fretta dei ricavi per troppo tempo, allora sì, il rischio di eccesso diventa reale. Ma se la produttività e i flussi di cassa seguono la stessa traiettoria, parliamo di una rivoluzione industriale più che di una bolla.

 

Arriviamo allora al punto: siamo davvero in una nuova bolla come nel 2000? Guardando i dati, la risposta più onesta è no. I mercati sono valutati su livelli elevati, ma non ci sono i tre ingredienti che allora alimentarono il collasso: un’ampiezza speculativa diffusa, un’offerta esuberante di nuove azioni e un credito facile pronto a finanziare qualunque sogno. Oggi i filtri sono più rigidi, il capitale è più selettivo, gli utili reali fungono da ancora e la regolamentazione ha reso più difficile ripetere gli eccessi del passato.

 

Ciò non significa che non possano arrivare correzioni, anche violente, ma sarebbe sbagliato confondere un mercato esigente con una bolla sistemica. Non è il momento dell’allarme, ma della disciplina. L’AI è un tema di lungo periodo che va seguito con razionalità, senza lasciarsi trascinare dal rumore di breve. La concentrazione dei titoli guida impone diversificazione reale e ribilanciamenti periodici, perché anche i colossi possono deludere. Ma oggi, rispetto al 2000, le basi sono più solide, i bilanci più trasparenti, la qualità degli utili più elevata. Le valutazioni possono correggere, i mercati possono respirare, ma la rivoluzione in corso è concreta.

 

Venticinque anni fa si compravano sogni, oggi si comprano risultati. La differenza è che allora la finanza correva più veloce dell’economia, oggi la tecnologia sta trascinando l’economia reale. Il rischio, come sempre, è confondere l’euforia con il progresso. Ma se la storia ci insegna qualcosa, è che le bolle passano, mentre le innovazioni vere restano.

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