I soldi bruciano davvero?

“In Borsa bisogna comprare quando i cannoni tuonano e vendere quando le trombe suonano.” (André Kostolany)

Vi siete mai chiesti perché certi titoli dei giornali finanziari sembrano fatti apposta per spaventare più che informare? Non è raro imbattersi in prima pagina in frasi roboanti del tipo: “Le Borse bruciano 150 miliardi”. Una scelta lessicale che, al di là dell’impatto emotivo, nasconde un problema concettuale e linguistico.

Nella lingua italiana, infatti, non tutte le parole hanno un opposto diretto. Gli aggettivi, i verbi contrari come accendere e spegnere, o gli avverbi bene e male, hanno un corrispettivo chiaro. Ma il verbo “bruciare” rappresenta un’eccezione interessante: indica una trasformazione definitiva, un processo irreversibile. Una volta che qualcosa è stato bruciato, non può tornare com’era. Per questo motivo, la nostra lingua non prevede un “anti-bruciare”.

Eppure, ogni volta che i mercati registrano una flessione, ecco il titolo pronto a evocare fiamme, cenere e distruzione.

L’effetto è immediato: il lettore immagina che quelle ricchezze siano andate perdute per sempre, come un foglio ridotto in cenere. La realtà, però, racconta altro. Nel lunedì nero del 19 ottobre 1987, il Dow Jones perse il 22,6% in una sola seduta: il più grande crollo giornaliero della sua storia. Eppure, nei due anni successivi, l’indice recuperò completamente la caduta, segnando nuovi massimi storici già nel 1989. Dopo la crisi del 2008, che vide l’S&P 500 crollare di oltre il 50% dal picco del 2007, nei cinque anni seguenti il mercato mise a segno un rimbalzo poderoso, con una crescita media annua di circa il 20%. Ancora più vicino a noi, durante il panico da Covid-19 nel marzo 2020, il FTSE MIB perse quasi il 30% in due sole sedute (–11,17% il 9 marzo, –16,92% il 12 marzo), ma nel giro di pochi mesi tornò a risalire, dimostrando che anche i crolli più violenti possono essere temporanei.

Il paradosso è che ciò che viene descritto come irreversibile si dimostra, nella maggior parte dei casi, temporaneo. La finanza non obbedisce alla chimica: il denaro “bruciato” non sparisce, cambia solo di mano o attende tempi migliori per riaffiorare. Il problema, dunque, non è il mercato, ma il modo in cui lo raccontiamo. Quando i titoli gridano al disastro, il risparmiatore medio, bombardato da immagini apocalittiche, rischia di reagire in maniera emotiva, vendendo al momento sbagliato o rinunciando a investire. È l’effetto di disposizione, studiato dagli psicologi comportamentali ovvero la tendenza a liquidare troppo presto i guadagni e a trattenere le perdite, spinti dal timore di perderci ancora di più.

La verità è che le correzioni fanno parte del naturale respiro dei mercati. Sono pause necessarie per consolidare i guadagni, aggiustare le valutazioni, riequilibrare i portafogli. Proprio come gli strafalcioni grammaticali servono a ricordarci che anche i giornalisti sono umani, le discese di Borsa ci rammentano che la crescita non può essere lineare. Il problema nasce quando la narrazione trasforma una fisiologica flessione in un rogo irreparabile, un incendio che divora patrimoni senza possibilità di ritorno.

Ecco allora che la grammatica si ribella. Perché se davvero “bruciare” non ha contrario, nei mercati finanziari il contrario esiste eccome: si chiama recuperorimbalzo, crescita. Parole che non fanno notizia quanto le fiamme, ma che descrivono meglio la realtà. Il miglior antidoto all’ansia non è evitare i giornali, ma leggerli con occhio critico e armarsi di educazione finanziaria. Perché se è vero che la stampa ci mette davanti all’orlo del precipizio, la conoscenza ci aiuta a capire che, molto spesso, quel precipizio non c’è.

In fondo, sarebbe bastato un titolo più sobrio: “Le Borse bruciano 150 miliardi, ma già in vista segnali di recupero”. Forse non avrebbe venduto tante copie, ma avrebbe aiutato qualcuno a dormire meglio.

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