Quando il cambio decide i tuoi rendimenti

Il dollaro statunitense sta attraversando uno dei momenti più difficili degli ultimi venticinque anni. Dall’inizio del 2025 ha perso circa il 10% rispetto a un paniere di valute, invertendo bruscamente la tendenza che nel 2024 lo aveva visto rafforzarsi. Per un investitore europeo questo dato non è un semplice dettaglio: chi ha allocato capitale in strumenti finanziari denominati in dollari, pur vedendo crescere il valore dell’indice sottostante come l’S&P 500, ha registrato rendimenti nettamente inferiori una volta convertiti in euro.

Il meccanismo è semplice. Un guadagno espresso in dollari può essere neutralizzato o trasformato in perdita quando la valuta di riferimento si indebolisce. Nel 2025 è accaduto esattamente questo: mentre l’azionario statunitense ha segnato un progresso positivo, il calo del biglietto verde ha eroso parte significativa dei guadagni per chi ragiona in euro. La vera lezione è che il cambio non è un aspetto marginale, ma una componente strutturale del rendimento.

 

Per comprendere le ragioni di questa svalutazione occorre guardare al contesto macroeconomico e politico. La prima variabile è la politica monetaria della Federal Reserve. Dopo un ciclo di rialzi nel biennio 2022-2023, la Fed ha adottato un approccio più attendista. L’inflazione ha mostrato segnali di raffreddamento, la crescita economica ha dato le prime avvisaglie di rallentamento e il mercato del lavoro ha perso parte della sua forza. Tutto ciò ha portato gli operatori a scontare la possibilità di tagli dei tassi nella seconda metà del 2025.

Il rapporto fra tassi e valuta è diretto. Un livello elevato dei tassi di interesse rende più attraente detenere attività in quella moneta, poiché assicura un rendimento maggiore. Quando invece i tassi vengono ridotti o ci si aspetta che lo saranno, la domanda di quella valuta cala. Ecco perché, mentre nel 2024 i rendimenti americani elevati avevano sostenuto il dollaro, oggi le aspettative di una Fed più accomodante stanno spingendo la moneta al ribasso.

Accanto alla politica monetaria, un secondo fattore che pesa è la sostenibilità delle finanze pubbliche statunitensi. Il debito federale continua a crescere, alimentato da deficit imponenti. In un sondaggio del CFA Institute, il 77% degli analistiritiene che la traiettoria del debito USA non sia sostenibile nel lungo termine. Ancora più rilevante, il 63% prevede che il dollaro perderà parte del suo ruolo di valuta di riferimento globale nei prossimi 5-15 anni, a favore di un sistema multipolare.

La fiducia nella stabilità della moneta americana è strettamente connessa alla percezione di sicurezza dei Treasury, titoli di Stato statunitensi da decenni considerati l’asset rifugio mondiale. Se questa fiducia si incrina, l’attrattiva del dollaro si riduce. Non a caso, molte banche centrali, in particolare la Cina, hanno intensificato gli acquisti di oro per diversificare le riserve e ridurre la dipendenza dal biglietto verde. Questo processo di “dedollarizzazione” non implica un abbandono totale del dollaro, ma segnala la tendenza di ricerca di alternative, soprattutto da parte delle economie emergenti.

Un terzo elemento è la politica commerciale degli Stati Uniti. L’approccio aggressivo e imprevedibile sui dazi dell’amministrazione Trump ha introdotto nuove incertezze. La mancanza di regole stabili ha spinto molti investitori a ridurre il peso degli asset americani nei portafogli, in particolare sul fronte obbligazionario. Ne è derivata una situazione paradossale: l’S&P 500 ha continuato a salire grazie ai colossi tecnologici, ma in parallelo si è registrata una fuga dai Treasury, riducendo la domanda di dollari e accelerando la svalutazione.

Tutto questo porta a un tema cruciale per gli investitori europei, ovvero la gestione del rischio valutario. Un investimento in asset esteri denominati in valuta diversa dall’euro comporta sempre una doppia esposizione, al rischio dell’andamento del sottostante e al rischio di cambio. Nel 2025 quest’ultimo ha inciso negativamente per chi aveva strumenti non coperti ha ottenuto rendimenti inferiori di 7-8 punti percentuali rispetto a chi aveva scelto versioni “hedged” (con copertura valutaria).

La copertura neutralizza l’effetto del cambio, allineando la performance in euro a quella del sottostante. Non è però gratuita: gli ETF e i fondi coperti hanno costi superiori, e in fasi di rafforzamento del dollaro impediscono di beneficiare del cambio positivo. È quindi una scelta strategica da valutare in base al profilo dell’investitore e agli obiettivi di medio-lungo termine.

In alternativa, la diversificazione valutaria rappresenta un’altra via. Esporsi non solo al dollaro, ma anche a yen, franco svizzero, yuan e altre valute consente di diluire il rischio specifico, anche se non lo elimina. Esistono poi strumenti derivati come forward o opzioni sul cambio, ma sono soluzioni tecniche, costose e inadatte alla maggior parte degli investitori retail.

La vera sfida resta la consapevolezza. Troppi investitori si concentrano solo sul rendimento dell’asset, trascurando l’impatto del cambio. L’esempio di quest’anno dimostra che l’andamento valutario può fare la differenza fra un investimento vincente e uno in perdita. Gestire il rischio significa conoscerlo e decidere consapevolmente se assumerlo o meno, non subirlo.

Il futuro del dollaro resta incerto. La moneta americana conserva un ruolo centrale nell’economia globale, ma il contesto sta cambiando. Un mix di fattori politici, economici e geopolitici sta spingendo verso un equilibrio più frammentato, in cui altre valute e l’oro guadagnano peso. Per l’investitore europeo, non è un allarme – anche il dollaro ha avuto in passato i suoi cicli – ma uno stimolo a pianificare con attenzione, scegliendo se accettare la volatilità valutaria o adottare strumenti di protezione.

L’indebolimento del dollaro non è soltanto un fatto di cronaca economica, ma una lezione pratica di gestione del rischio. Capire che il rendimento non dipende solo dal mercato scelto, ma anche dalla moneta in cui è espresso è un passo fondamentale per costruire una strategia patrimoniale solida e coerente con i propri obiettivi.

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