“Chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”. – George Santayana
Ogni anno, con l’arrivo della primavera, torna puntuale una domanda tra investitori e analisti: conviene davvero vendere in maggio e aspettare l’autunno per rientrare nei mercati?
Durante l’estate, in particolare ad Agosto, i mercati tendono ad essere più sterili e meno dinamici. Uno dei motivi principali è il calo delle negoziazioni, dovuto alle vacanze estive. Questo ridotto volume di scambi può favorire una maggiore volatilità e portare a movimenti di mercato incoerenti, che sono difficili da interpretare. Inoltre, in questo periodo le aziende raramente rilasciano risultati finanziari rilevanti o guidance, come avviene invece nei primi mesi dell’anno, quando vengono diffusi spunti fondamentali per il mercato.
Un altro fattore importante è l’effetto psicologico e comportamentale che caratterizza i mesi estivi. La credenza diffusa che sia meglio vendere in primavera e rientrare in autunno alimenta un circolo che si autoalimenta, creando una sorta di “effetto tramonto estivo”. Questo fenomeno psicologico può portare molti investitori a ridurre la loro attività sui mercati, accentuando ulteriormente la calma estiva e rendendo il mercato più sterile.
Ma i mesi estivi sono storicamente meno favorevoli per i mercati azionari? I numeri confermano davvero questo schema?
Analizzando i dati dal 1998 al 2023, chi fosse rimasto investito nell’S&P 500 tra novembre e aprile avrebbe ottenuto una performance media del 6,6%, contro un modesto 2,4% dei mesi da maggio a ottobre.
Il semestre invernale ha avuto la meglio sul periodo estivo nel 77% dei casi.
A settembre si concentra il momento peggiore: in 63% delle annate il mese ha chiuso in perdita, con un rendimento medio del -1,9%. Al contrario, novembre e dicembre si distinguono per la loro capacità di rilanciare i listini, anche grazie a fattori stagionali come la chiusura dei bilanci e l’effetto Natale.
E in Italia?
Passando ai mercati italiani, si osserva una tendenza simile. Nell’indice FTSE MIB, il semestre novembre-aprile ha prodotto una performance media dell’1,6%, contro un -0,7% registrato tra maggio e ottobre.
Anche in questo caso, i mesi caldi — in particolare giugno e agosto — tendono a offrire rendimenti più deboli o negativi. Tuttavia, ci sono eccezioni: in anni come il 2009 o il 2020, rimanere fuori in estate avrebbe significato perdere importanti fasi di rialzo.
Il confronto tra le strategie “Sell in May” e “Buy & Hold” mostra un chiaro vincitore nel lungo periodo. Negli Stati Uniti, chi ha mantenuto l’esposizione costante sull’S&P 500 avrebbe ottenuto un rendimento cumulato del +669% (rendimento medio annuo del 10%), contro il +358% di chi avesse applicato la strategia stagionale.
In Italia il discorso è simile:
- +500% per chi ha sempre mantenuto l’investimento attivo (rendimento medio annuo +9%),
- +457% per chi ha seguito il “Sell in May”,
- solo +69% per chi avesse investito esclusivamente nei mesi estivi (rendimento medio annuo +2%).
Più che una regola ferrea, quindi, la stagionalità va letta come un indicatore di tendenza. L’estate, spesso più debole per volumi e notizie, può richiedere maggiore prudenza, ma non necessariamente l’uscita dal mercato.
Essere consapevoli dei periodi più volatili può aiutare a gestire meglio l’esposizione e i rischi. Ma nessun automatismo dovrebbe sostituire l’analisi del contesto economico. La stagionalità può essere uno strumento utile per navigare con attenzione, non un pilota automatico.